venerdì 19 giugno 2015

Safe - Todd Haynes (USA - 1995)

 

   Carol (Julianne Moore) è una giovane sposina timida, premurosa ed infelice della ricca borghesia della Los Angeles di fine anni ’80. Vive con suo marito Greg (Xander Berkeley), un uomo d’affari  e Rory, il figlio di prime nozze di Greg, un bambino di 10 anni col quale intrattiene un rapporto di fredda amorevolezza piuttosto distaccata e più che altro funzionale al quieto vivere con il suo uomo. Greg, per parte sua, è un brav’uomo e un bravo marito, ma già dalle prime scene, dal lungo amplesso tra i due al quale lui è l’unico a partecipare veramente mentre lei ne attende, con la pazienza della brava mogliettina, solo la fine, appare chiaro che il loro sia un rapporto più di facciata che di sostanza, o meglio, dove la sostanza è finta, ed è più che altro utile ad imbiancare la facciata. 


   In questa situazione, riempendo i vuoti della sua vita con ginnastiche giovanilistiche, frivole diete a base di sola frutta, ora in compagnia delle sue amiche di pari rango e qualità intellettuale, ora intenta a costruire un senso per se stessa dedicandosi al giardinaggio o  al nuovo design per la sua bella casa, Carol incomincia misteriosamente ad avvisare strani sintomi legati alla respirazione: tossi non addomesticabili, attacchi d’asma, a volte vomito e perdita improvvisa della memoria. Alle prime analisi, il medico di famiglia non ravvisa nulla che vada oltre un normale stress, e tenta di risolvere il caso ricorrendo solo a blande pomate per gli sfoghi cutanei e ad una dieta che reintroduca carne e proteine. Ma col protrarsi e l’intensificarsi dei sintomi, sempre più marcati e indecifrabili, Carol, accompagnata sempre dall’onesto Greg, si rivolge ad alcuni specialisti, un immunologo prima, poi uno psichiatra, imbattendosi infine in un volantino appeso nella bacheca del centro benessere che frequenta e che le spalancherà la porta verso la ricerca di una soluzione “olistica” a quel disagio per il quale la medicina ufficiale, con sua stessa ammissione, sembra non essere all’altezza di proporre un rimedio.

   Man mano sempre più coinvolta nella scoperta di quelli che sono “le nuove malattie legate all’ambiente”, della presunta,  sostanziale velenosità che ci assedia e ci insidia lì dove viviamo (gas di scarico, fumi industriali, spray, vernici, alimenti, persino il nuovo, fantastico divano color tè “assolutamente tossico”), autonomamente o in forza con un gruppo di persone affette dai medesimi disturbi al quale approda seguendo le tracce del volantino, Carol si convince sempre di più che la risposta sia da cercare altrove, fuori dai canoni normali. Si imbatterà così nel Wrenwood Center, una specie di comune dal regime piuttosto spartano a metà tra una clinica salutistica ed un centro religioso che sorge in pieno deserto nel New Mexico, fondata da tal Peter Dunning (Peter Friedman) uno scrittore a sua volta malato di AIDS, atteggiato a una sorta di guida spirituale tutto peace-&-love,  introiezioni taumaturgiche e ricerca del vero se stesso. Ma, come diceva giustamente Corrado Guzzanti nel suo felice personaggio del seguace di Qhuelo, sintetizzando il concetto in quella che non è mai stata soltanto una battuta spiritosa: “La risposta è dentro di te, e però è sbagliata”.


   Dal canto suo, peraltro, nemmeno Todd Haynes (regista che ama stare fuori dagli schemi dello show-biz, per quanto gli sia possibile, firma affermata del cosiddetto cinema indipendente del quale non va dimenticata la meritoria e spesso fortunata attività di produttore e promotore di molti registi in cerca di spazio e visibilità, come nel caso dell’ottima Kelly Reichardt della quale ha prodotto praticamente tutti i film), nemmeno Haynes, dicevo, si azzarda a dare una risposta che voglia essere troppo precisa, e persino nel fissare i contorni della vicenda e dei personaggi evita con buon stile di definire con troppa nettezza quali siano i confini, spingendosi oltre ai quali si correrebbe il rischio (che Haynes dribla con maestria) di giocare un ruolo manicheo da benpensanti dediti allo smantellamento delle versioni altrui.

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   E così Carol è, al tempo stesso, tanto una casalinga ingenua e mediocre quanto una preda dei famelici “Tempi Moderni”, è una sempliciotta che si accontenta delle sue belle borsette e insieme una paladina della causa ambientalistica, una fortunata borghese quanto una vittima dello scetticismo di coloro che la circondano nei confronti della reale sussistenza dei suoi disturbi; e casomai è proprio l’incosapevolezza di essere insieme tutte queste cose che fa di Carol un personaggio nebuloso e poco empatico, né eroe, ma neppure anti-eroe, vittima e complice di un destino che non a caso la perseguita proprio in virtù del fatto che nemmeno lei si rende conto di quante cose disponga (la bella casa, i soldi, la famigliola, il consumismo...), e che la porta fino ad ammalarsi esattamente di over-dose di abbondanza. D’altra parte, proprio l’unica, vera occasione di riscatto e occasione finalmente di una vera libertà e (perché no?) di vera felicità che “il destino” le porge nei tratti finali del film attraverso il personaggio di Chris, un giovane anche lui residente al Centro che le manifesta chiaramente la speciale “simpatia” che prova per lei, Carol non è in grado di coglierla, annebbiata com’è dai suoi schemi mentali.
Suo marito Greg, come già detto prima, è marito ligio al dovere, lavoratore indefesso, sempre pronto alla parolina dolce, ad assecondare e/o ad aiutare la moglie nelle peripezie degli strani eventi che la coinvolgono, presente quel tanto che il lavoro gli consente e che la patente di “buon padre di famiglia” gli richiede. Ma è anche l’uomo che dalla sua donna cerca sempre il “sì”, che si adombra per i mal di testa strategici di lei, che “monta sopra” chiedendo solo formalmente il permesso e senza interessarsi se “quella sotto” sia o meno della partita in gioco, mentre a suo figlio riserva ora  parole di incoraggiamento ed encomio, ora perentori e scorbutici ordini, scanditi sbrigativamente.


   Ma è soprattutto col personaggio di Peter, il padre fondatore della Comunità di Wrenwood, che Haynes sfoggia le sue doti di equilibrismo e dimostra la sua riluttanza non tanto nel prendere posizione, quanto nel dare valutazioni o valori alle varie posizioni: il sedicente scrittore è infatti certamente dipinto come il più classico dei falsi profeti (il Qhuelo di Guzzanti, appunto), dei parolai farabulani stile new-age (il film, ricordiamolo, è del 1995) che infinocchiano il prossimo con la stessa naturalezza con la quale hanno infinocchiato se stessi, del predicatore olistico penso-positivista che rimanda la causa di tutti i mali all’io represso, brutto e cattivo. Ma nemmeno la sontuosa, candida villa che sovrasta il Wrenwood Center dove Peter alloggia (inquadrata solo un istante e da lontano, del quale interno lo spettatore può solo immaginare) servirà al regista da pretesto per formulare un giudizio o a creare un’opinione, tant’è che come finale, Haynes non sceglie proprio nessun finale: il finale (non anticipo nulla...) è semplicemente una bravissima Julianne Moore (qui in una delle sue normali, prestigiose performances) dentro al suo specchio, una Carol ancora e sempre sconosciuta a se stessa, magrissima ed emaciata, intenta a sussurrarsi frasi non sue che non comprende, e probabilmente non comprenderà mai come e perché le scivolino addosso, inutilmente, senza guarirla.  

   Lungi dall’essere un film socialmente impegnato nelle tematiche ambientalistiche o salutistiche (al contrario: un certo sarcasmo aleggia sornione proprio nei confronti anche di questi argomenti, ed è interessante notare come anche la “beniamina” di Haynes, già citata Kelli Reichardt, si sia cimentata col suo “Night Moves” sugli stessi temi), “Safe” è certamente un film che parla schietto di contraddizioni, di ambiguità, di argomenti irrisolti quando non addirittura irrisolvibili, di ipocrisie che sembrano innocenti, ma diventano ancor più pericolose e subdole quando siano riuscite a scavarsi una tana dentro di noi, arrivando ad anestetizzare l’intelligenza  e l’umana capacità di discernimento, ancor prima di essere riuscite a corromperne la coscienza; è un puntuale ritratto di un’America superficiale e distratta, appesantita, incapace di gestire i disagi che essa stessa si procura.
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